“Amici miei”, il film cult di Mario Monicelli compie 46 anni

Era il 15 agosto 1975 quando il capolavoro di Mario Monicelli, su soggetto di Pietro Germi, sbarcava nelle sale italiane. Da quel momento, la commedia all’italiana prese una direzione diversa e le “zingarate” e le “supercazzole” divennero neologismi della lingua italiana. Oggi, a 46 anni di distanza, “Amici miei” conserva ancora lo stesso fascino e la stessa magia di quel Cinema con la “C” maiuscola che, un po’ rimpiangiamo.

Il 15 agosto 1975 usciva nelle nostre sale “Amici miei”, film cult diretto da Mario Monicelli, che segna un punto di svolta con la commedia all’italiana tanto in voga in quegli anni. In realtà, il maestro Monicelli riprese un soggetto che apparteneva ad un altro grande del nostro cinema, Pietro Germi, che morì nel 1974, non avendo il tempo per portarlo avanti. Infatti, nei titoli di testa, Monicelli decise di scrivere “Un film di Pietro Germi”, come omaggio alla sua memoria e al grande capolavoro che gli è stato lasciato. La pellicola ottenne un successo enorme, riuscendo a portare vincere un Globo d’Oro (Miglior attore rivelazione a Duilio Del Prete), tre Nastri D’Argento (Miglior produttore, Miglior soggetto e Migliore sceneggiatura) e due David di Donatello (Miglior regista a Monicelli e Migliore attore protagonista a Ugo Tognazzi).

Non tutti sanno che la pellicola è ispirata a fatti realmente accaduti e persone esistite veramente, ma con altri titoli e nomi, nella Castiglioncello degli anni ‘30. La storia, che ha come protagonisti il nobile decaduto Raffaello “Lello” Mascetti (Ugo Tognazzi), l’architetto Rambaldo Melandri (Gastone Moschin), il giornalista Giorgio Perozzi (Philippe Noiret) e il barista Guido Necchi (Duilio Del Prete), ai quali si aggiungerà anche il primario Alfeo Sassaroli (Adolfo Celi), che si riuniscono, in una bellissima Firenze, per passare insieme momenti di puro cameratismo, è semplicemente perfetta.

Gli amici – tutti più o meno sui 50 anni – danno vita alle ormai celeberrime “zingarate” e alle “supercazzole”, giro di parole senza senso dette, ad ignare vittime, come fossero concetti logici e seri, sono diventati veri e propri neologismi della lingua italiana. I loro scherzi – celeberrima è la scena degli schiaffi ai passeggeri di un treno o i mille dispetti fatti al pensionato Nicolò Righi – sono entrati nella storia del cinema. La peculiarità di “Amici miei”, però, è racchiusa nel fatto che non c’è un lieto fine e l’atmosfera goliardica è permeata da uno humour nero, forse non percebile sin dall’inizio. In una società dove prevalgono l’egoismo e l’ambizione ad un benessere borghese fatuo,  gli amici si sentono autorizzati a burlarsi di tutto e tutti, perchè il mondo intorno, ormai, non da più alcuna affidabilità o via alternativa, e non è più possibile cambiarlo. Il loro gruppo diventa una sorta di microcosmo privato in cui rifugiarsi, che li aiuta anche a sdrammatizzare lo spettro della vecchiaia.

Il gruppo, l’amicizia, il concetto di cameratismo, la ricerca esistenziale dei personaggi sono tutte tematiche care a Monicelli e a Germi, sviluppate già nei loro film precedenti, e qui portate all’estremo. Lo humour nero, l’illusione e la precarietà di quella condizione, fanno terminare la pellicola con un climax che, per certi versi, rappresenta anche la morte di un genere di commedia che, da quel momento in poi, si diramerà in direzioni diverse.

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